Ai confini della realtà
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AI CONFINI DELLA REALTA'
Mostra Fotografica Soci
Elisabetta Aquilanti, Silvia Breschi, Rosella Centanni, Francesco Colonnelli, Tiziana Torcoletti
02 – 18 Febbraio 2024
Inaugurazione mostra: Venerdì 2 Febbraio 2024 ore 18.00
Orario mostra: dal giovedì alla domenica 17.30-19.30
Testo critico di Michele Servadio
Leggendo per la prima volta il titolo di questa mostra, la mente dell’osservatore lo condurrà, almeno per qualche breve istante, all’interno delle misteriose e suggestive scenografie di Ai confini della realtà, celebre ed omonima serie fantascientifica creata da Rod Sterling nel 1959 e alla cui realizzazione partecipò, fra gli altri, anche Ray Bradbury, uno dei padri della fantascienza contemporanea.
L’elemento che forse ne decretò il grande successo internazionale fu la sua capacità di inserire i protagonisti all’interno di storie apparentemente dense di enigmi e di elementi soprannaturali ma che poi, con il passare del tempo, si rivelavano invece spesso strettamente legate alla realtà e alla vita quotidiana, in particolare a quell’elemento misterioso e non ancora conosciuto capace di rendere possibile l’impossibile.
Il confine della realtà diveniva pertanto l’ignoto, ciò che lo spettatore non conosceva e che non si aspettava di conoscere; egli si ritrovava così proiettato lungo un percorso di comprensione che raggiungeva il suo epilogo nei celebri switching endings, ovvero i colpi di scena rivelati sul finale di ogni puntata, in cui venivano del tutto capovolte le convinzioni dello spettatore, lasciato solo e stupito davanti ai risvolti inattesi della trama.
Questa mostra non condivide con quella serie televisiva di grande successo solamente il titolo ma anche buona parte della propria struttura espressiva; l’insieme degli artisti e delle fotografie presenti in questa mostra testimoniano infatti come la realtà percepita da ciascun artista sia vera e concreta, sebbene filtrata dall’interiorità ed amalgamata allo spirito di osservazione e, proprio per questo, capace di rendere visibile l’apparentemente invisibile. Alcune fra queste foto sono accompagnate da un testo, da una didascalia o da un pensiero scritto direttamente dal fotografo, elementi questi che ne specificano il significato amplificandone la portata espressiva, proprio sulle orme di alcuni grandi fotografi contemporanei come Kenneth Lum.
Rosella Centanni presenta in questa mostra otto fotografie in cui viene ribadito ancora una volta quanto forte sia il legame fra poesia e arti visive. I suoi colti e raffinati scatti sono infatti ispirati a Sonia la Russa, personaggio che dona il nome ad uno dei più celebri ed intensi epitaffi poetici scritti da Edgar Lee Masters all’interno della sua grande raccolta L’Antologia di Spoon River. Ogni fotografia racconta un frammento della vita di questo affascinante personaggio, simbolo di confine fra dimensione letteraria e dimensione fotografica, rappresentazione visiva e tangibile di ciò che l’artista ha sentito dentro di sé leggendo quei versi, a dimostrazione che l’atto creativo di un fotografo inizia molto prima dello scatto e parte sempre e comunque da un’emozione, da un pensiero o da un’idea.
Silvia Breschi sceglie invece di osservare il cielo trafitto dai raggi del sole, all’interno di una cornice in cui la luce riesce a creare immagini dal forte impatto drammatico e quasi cinematografico. Sull’orlo di un cielo che sembra sul punto di inghiottire il mare che gli sta appresso, si erge una figura solitaria, una donna forse in contemplazione davanti ad uno spazio naturale (in)finito ed (in)compreso. La stessa figura ricompare anche all’interno di spazi urbani costruiti con mattoni che si fanno testimoni di storie lontane nel tempo, simboli di confine fra il passato ed il presente, fra ciò che ancor oggi può essere toccato e ciò che ormai è solo eco.
Elisabetta Aquilanti sceglie invece di ritrarre un lato nascosto della realtà, sicuramente lontano, forse isolato, di certo celato, che però viene riportato alla luce grazie alla sua macchina fotografica ed alla sua spiccata sensibilità, capace di rappresentare visivamente la luce del reale ma anche la sua ombra più velata. I suoi scatti sono delicati, attenti osservatori della realtà ma anche dei suoi riflessi più tetri e nascosti, tracciando un confine vivo fra ciò che è stato e ciò che c’è ancora, tra un frammento di vita vissuta ed il ricordo che vive ancora in coloro che ne sono stati testimoni.
Lo sguardo di Francesco Colonnelli è invece rivolto verso quell’eterna dualità che lega l’Uomo alla Natura, l’elemento umano a quello naturale. I suoi scatti percorrono quel labile confine che lega l’uomo alla sua dimensione naturale, in un rapporto a volte fatto di dolcezza e tenerezza, come un tête-à-tête fra l’artista ed il suo gatto, a volte divertente e bizzarro, come lo sguardo stupito di un cane dinanzi ad un suo alter ego pittorico, altre volte oscuro ed incomprensibile, come lo sguardo impassibile di un asino davanti ad una ragazza che gioca con una palla, altre volte ancora cinico e provocatorio, come l’autoritratto dell’artista con indosso il simbolo della tragedia pandemica che diventa rovesciamento del tragico.
Concettuale, riflessivo e citazionista è infine lo spirito con cui Tiziana Torcoletti analizza e destruttura il rapporto che lega l’umanità alla sua immagine. Le sue donne eleganti e raffinate ma dallo sguardo cupo ed insondabile sono colte infatti mentre si specchiano e si osservano, mentre scandagliano i misteri del proprio volto all’interno di uno specchio che non sembra però in possesso delle risposte che esse bramano di avere. Le sue donne cercano forse risposte, o forse una via d’uscita da quell’immagine capace di trasformarsi in una prigione invalicabile, sorvegliata dalla paura e dal giudizio altrui. Serve una grande forza d’animo per uscire da quelle celle interiori protette da possenti sbarre di ferro, ma l’azione di corrosione generata dalla riflessione, dal dolore e dalla crescita spirituale non può non lasciare tracce prima sulla pelle e poi sullo spirito. Ecco allora che lo sguardo dell’artista si concentra sulle macchie, tracce visibili nell’anima e nel corpo dei suoi soggetti, capaci di contaminare una superficie fino a squarciarla, proprio come le crepe di un muro che diviene simbolo ed emblema di un’umanità sì affranta ma ancora capace di ritrovare se stessa.